Monte Canda

Vi racconto qui la storia di Monte Canda, quel monte che scivola verso l’Emilia, s’arrampica dalla valle del Santerno e poggia i piedi nell’antica Romagna toscana, lì dove il fiorentino si mescola al romagnolo, che basta svoltar l’angolo per sentire una parlata diversa.

Sulla sua spalla, nell’Alto Mugello, si affaccia il Passo della Raticosa, che d’estate è tutto uno sfilare di moto in bella mostra che rombano sulla strada da Bologna a Firenze, attraversano i paesi come su un circuito d’alta velocità, per raggiungere la Futa e poi giù fino alla diga del Bilancino. Di corsa, per lo più. In tanti si fermano, alla Raticosa. Qualcuno si sdraia sui prati intorno. In meno salgono fino alla cima del Canda, che, vi assicuro, ne varrebbe la pena. E non ci vuole mica tanto, solo un po’ di salita, che poi è parte del bello di arrivare in cima, tra archi di noccioleti, abeti e faggi. Parte, perchè poi arrivi lassù e ti ritrovi su una cresta di pascoli, come la spina dorsale di una grande balena. Ti volti a sud e t’affacci sul Monte Beni, che sembra un vulcano anche se un vulcano non è, di roccia scura, arrivato quassù dalla profondità d’un oceano. Che poi una cava ha cominciato a scavarne le radici, lui s’è ribellato ed è franato. Proprio nel versante che s’affaccia sul Canda. Subito dietro ti appare Monte Freddi e poi il Sasso di Castro, che pure hanno cavato, come il Beni, per ricavare calcestruzzo per l’Alta Velocità. Ti volti un poco a ovest ed ecco Mont’Oggioli, coi ricevitori in cima che riesci a riconoscere da lontano, fin dal Corno alle Scale. Se, poi, prosegui un poco sulla cresta, ti appare proprio di fronte un grosso masso nero, il Sasso di San Zanobi, perchè, si dice, venne portato fin quassù proprio dal santo quando sfidò il demonio. Verso nord ti attira la curiosa rocca di Cavrenno, un cono perfetto in mezzo all’alta valle del Savena, col suo rocchino dove, ci puoi scommettere, c’è qualcuno che sta scalando. Più lontano si alza un monte con un santuario in cima, che è il Monte delle Formiche. E se da questo sposti lo sguardo verso nord-ovest, vedi sfilare le cime del Contrafforte Pliocenico, Monte Adone, la Rocca di Badolo e via andare, con la loro bella arenaria gialla piena di fossili di conchiglie di quando lì, ci arrivava il mare (ma i fossili dal Canda mica li vedi). Nelle giornate di vento buono, poi, da quassù partono a volare in parapendio. Che, difatti, pare anche un trampolino sul versante sud-est, affacciato sul Monte Carpinaccio, che stende la sua cresta perpendicolare al Canda, verso il parco eolico sopra al Peglio, e, ancor più in lontananza, verso un monte che pare un’enorme scala bianca, una cava (sì, un’altra). Stavolta di pietra serena, all’imbocco della valle del Rio Rovigo lì dove confluisce nel Santerno.

Vi racconto, dicevo, la storia di questo monte. O meglio, almeno un pezzettino. Di com’era e di com’è diventato. Che un luogo ci sembra sempre più o meno uguale, e invece lo vediam cambiare, se lo guardiamo con gli occhi di chi già l’ha vissuto, prima di noi. Gli occhi son quelli di Riccardo, storico fabbro, artigiano artista, del paese di Pietramala, subito ai piedi del Monte Canda. Racconta, Riccardo, che un tempo Canda era coltivato e pascolato. Dai campi sopra la Pieve di San Lorenzo, che svetta a custodire il paese con la sua madonnina bianca al fianco, da quei campi, insomma, si ricavava dell’ottimo foraggio e chi aveva un pezzetto di terra sul monte, lo curava con grande attenzione. D’inverno, poi, questi grandi campi aperti s’imbiancavano di neve, candidi, di qui il nome.
Vacche e pecore pascolavano su tutto il monte, tranne che sulla parte più scoscesa e rocciosa del versante est. Anche il lato che s’affaccia sulla Raticosa, tutto il versante nord-ovest, dove oggi fioriscono abbondanti i prugnoli, i biancospini e le rose canine in primavera, un tempo erano campi aperti. Noccioli, a quel tempo, ce n’erano pochi, solo nei fossi, e poi, pian piano, son cresciuti, che pare che anche loro si siano incamminati verso la cima, curiosi d’affacciarsi di là. Poi venne la guerra, quella mondiale, la seconda. E i campi coltivati e pascolati, si riempirono di buche, delle bombe del ’43. E nelle buche si nascondevan le lepri, che dal paese salivano a cacciare. Poi passò anche la guerra ed arrivò una ditta dalle Alpi, eran friuliani, e piantarono abeti e qualche faggio rosso. Quei boschi alti, fitti fitti, che oggi disegnano il versante sud, sopra la pieve ed il paese, mica c’erano prima del ’55-’60. Che pare un tempo lontano, che siano lì da sempre, ma non è mica tanto in là, se ci pensate. Forse, certo, potreste obiettare che boschi lì, di faggi, ce n’eran già prima dei campi coltivati, prima dei pascoli, prima delle buche della guerra, prima delle lepri e prima ancora dei boscaioli friuliani, ma questo di preciso non lo so e qui non lo racconto, ve lo lascio immaginare. Torniamo a noi. Negli anni ’70 arrivano i pini neri, col Corpo Forestale dello Stato, a ricoprire i balzi sopra la fonte del tufo, che s’incontra se da Pietramala prendete la strada del Peglio e girate intorno al monte, per affacciarvi sul suo fianco est, là dove volano i parapendii. In quegli anni era un gran lavorare, un piantare e rimboschire ovunque. Oggi girar quei boschi è una bell’avventura, nel trambusto d’alberi caduti, nel fitto di luoghi un po’ dimenticati, che non è poi neanche del tutto un male, secondo me. Delle strade forestali rimangono, se rimangono, solo tracce, che ormai son più dei caprioli e dei cinghiali che degli uomini.

Insomma, se arrivate fin sulla Raticosa sui motori rombanti di moto fiammanti, o a Pietramala in corriera, in jeep, in bicicletta, a piedi o pure in ultraleggero, fatevela una camminata sul Monte Canda. E guardatevi intorno, senza fretta. Ed allora, oltre ai panorami di sfuggita che paion belli sì, ma fermi immobili intorno a voi che correte, da lassù riuscirete a vedere un gran movimento, tutto un cambiare, di continuo, che è quello che i luoghi vi posson raccontare.

Vi lascio qui un’idea, un’escursione ad anello, che dal paese di Pietramala sale su alla Raticosa dalla strada vecchia di ciottoli e poi attraversa abetine, faggete e noccioleti fino alla cima del Canda, ne percorre tutta la cresta e gira attorno al versante est per rientrare, infine, in paese, dopo una rinfrescata alla fonte del tufo.

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